Papa Giovanni Paolo II La Giovinezza.

Papa Giovanni Paolo II

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Prefazione

Una profezia folgorante

Stupore e gioia

La strada per Roma

La piccola città

La famiglia del Papa

Vita modesta e pia

Il fratello medico

La casa vuota

Un buon allievo

L'attore Wojtyla

Un calcio ben tirato

Debutto sulla stampa

Prete? Non ancora

Gli amici del ginnasio

Le brigate di lavoro

Nella vecchia Cracovia

All'università

Una serata del 1938

Il primo giorno di guerra

Sotto il tallone nazista

L'operaio della Solvay

L'aiutante del vecchio Labus

Solidarietà operaia

La santità del lavoro

Il "Rosario Vivo"

L'apostolato di Tyranowski

La morte del padre

Nel cerchio rapsodico

L'avvenimento nella cattedrale

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PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI PAOLO II - LA GIOVINEZZA

PREFAZIONE

Da quando Karol Wojtyla è diventato Giovanni Paolo II un interesse crescente si riversa sulla sua persona. Dapprima fu la sorpresa per il nome nuovo e l'inattesa nazionalità. Ma gradualmente fu l'uomo ad attrarre l'interesse e con l'interesse la simpatia e con la simpatia la venerazione, la devozione, l'amore delle moltitudini. E questo sia perché il Papa è sempre padre universale, sia perché nella paternità di Karol Wojtyla le folle hanno scorto con crescente percezione un singolare carisma che senza nulla togliere al rispetto dovutogli per l'altissima carica, suscita la sensazione di avere in lui un amico, un fratello, quasi un familiare. Non sorprende perciò che il desiderio di conoscere meglio la sua persona attraverso la storia della sua vita si ritrovi sempre più diffuso tra la gente. Non è una curiosità morbosa. Non è la ricerca dell'idolo, come avviene in molte manifestazioni di massa della nostra società consumistica. È il desiderio di sapere perché si ama, è la ricerca di una storia nella quale ciascuno si sente coinvolto, così come avviene per quella della propria famiglia. Ed ecco un volume che vuole rispondere a tanta attesa, percorrendo quel periodo della vita di Karol Wojtyla che si svolse nell'anonimato rispetto alla scena del mondo, un libro che narra la storia di un bambino venuto alla luce nella lontana terra di Polonia, cresciuto tra i suoi compagni nella semplicità di una vita ordinaria, diventato studente, lavoratore, artista, e poi seminarista, sacerdote, vescovo, cardinale. Sono pagine narrate con cura e con amore, sono immagini che inseguono le varie tappe di una vita che nel suo progredire si dimostrava segnata da una missione singolare, che soltanto dopo è apparsa in tutto il suo significato. Nulla deve essere anticipato rispetto a quello che il lettore troverà leggendo e scorrendo queste pagine ariose, piene di dettagli, di fatti, di notazioni, di collegamenti che sfociano in un grande affresco di fattura artigianale, senza ricercatezze erudite, ma tale da dare veramente l'idea di ciò che è stata la vita di quest'uomo chiamato ad alti destini, prima che la scintilla dello Spirito ne svelasse tutta intera la vocazione. Tuttavia non si può tacere il contesto nel quale questa vita si svolge. Alle sue spalle c'è un millennio di storia, la storia della nazione polacca, diventata tale con l'accettazione del cristianesimo, cosicché spirito polacco e spirito cristiano hanno realizzato tra quella gente una fusione perenne, quale di rado si può trovare in un popolo. È tutta una cultura, è tutta una storia, pervasa di fierezza segnata dalla fedeltà, provata dal dolore, risorgente dopo ogni prova con la tenacia di un forte carattere umano e di una fede religiosa incrollabile. Su tutto stende il suo manto la Regina della Polonia, la Vergine Maria venerata come tale nel Suo santuario nazionale di Jasna Góra a Czestochowa, onorata in cento e cento santuari, implorata nelle famiglie, invocata da ciascuno come la protettrice, la maestra, la madre, il baluardo dei valori personali, familiari e nazionali. Karol Wojtyla è stato detto «il più bel fiore della devozione mariana polacca». Dalle pagine di questo volume i lettori potranno trovarne il riscontro e comprendere perché nel suo stemma di vescovo e poi di Papa campeggino, con la croce nuda, le parole «Totus Tuus» e perché nel primo saluto rivolto da Papa alla folla vi fosse un così sentito appello mariano. Karol Wojtyla ha vissuto una vita ordinaria, se così si può chiamare la vita di una persona che raggiunge come arcivescovo e cardinale la guida di una delle più prestigiose diocesi del mondo, quella di Cracovia sua terra natale. Ma questa ordinarietà si è accompagnata a una tale quantità di esperienze spirituali e pastorali, umane, culturali e sociali da consentire a chi la osservi retrospettivamente di scorgervi un disegno superiore che tutto faceva confluire verso la realtà che oggi sta sotto gli occhi del mondo, quella di una fraternità e di una paternità universale, ricca di una inconsueta capacità di partecipazione. La parola che segue è senza dubbio molto impegnativa, ma per il credente non è fuori posto spenderla. c'è qualcosa di biblico in questa esperienza umana visibilmente condotta da Dio, che fa pensare a lontani personaggi che hanno segnato la storia religiosa del popolo di Dio negli antichi tempi. Soltanto in questa chiave, nella consapevolezza di un disegno superiore che gradualmente si è sviluppato facendo confluire ogni elemento verso una meta finale, è possibile leggere e comprendere questa storia che si potrebbe anche dire la preistoria di Giovanni Paolo II. Per il credente questa è una certezza per il non credente è perlomeno motivo di stupore e di ammirazione. Per tutti deve essere un'occasione di gioia. C'è un uomo oggi nel mondo che brandisce alta e con grande forza la fiaccola della speranza. Conoscerlo significa capirlo di più. Capirlo può voler dire inserirsi nella sua scia e assecondare la sua opera: un'opera che cerca soltanto il bene, per ogni uomo e per l'umanità.

Mons. Virgilio Levi

PAPA GIOVANNI PAOLO II LA GIOVINEZZA

Prefazione parte I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII

La prima Comunione di Karol WojtylaLa prima Comunione di Karol Wojtyla

UNA PROFEZIA FOLGORANTE

In mezzo ai tumulti Dio scuote una grande campana. A un Papa slavo, ecco, il trono è preparato. Egli non fuggirà davanti alle spade come l'italiano; ardito come un Dio, fronteggerà le spade: per lui il mondo è fango. Il suo volto irradiato dal sole per i fedeli sarà faro. Lo seguiranno genti, sempre più numerose, verso la luce che Dio abita. Obbediente al suo invito e comando non sarà solo il popolo, ma anche il sole a un suo cenno levandosi, poiché la sua forza è miracolo. Egli già s'avvicina, dispensatore nuovo di energie universali. E nelle vene, per le sue parole, rifluirà il nostro sangue. Comincerà nei cuori il moto torrenziale della luce divina e l'idea concepita diventerà realtà grazie a lui: tanta forza ha lo spirito, quella forza che occorre a sollevare il mondo del Signore. Ecco venire il Papa slavo, fratello del popolo, ed eccolo versare i balsami del mondo nel nostro seno, mentre una schiera d'angeli con ramoscelli in fiore gli spazza il trono. Questa poesia di Juliusz Slowacki, che per lungo tempo non suscitò un grande interesse, oggi ci riempie di stupore. Scritta durante la Primavera dei Popoli (1848), per l'oscurità dei suoi contenuti, sembrava confermare l'opinione corrente circa la confusione nella quale si trovava in quel periodo il grande poeta, malato e melanconico. Ma ecco che, dopo 150 anni, la misteriosa visione poetica dell'autore di «Re Spirito» (1), così fidente nella potenza di un Papa slavo che avrebbe dovuto essere quasi il difensore di quel mondo «nel dissidio», diviene oggi profezia folgorante. Infatti, il 16 ottobre 1978 è stato eletto un Papa slavo, un Polacco nostro fratello, affettuoso, fedele, fortemente provato figlio della nostra terra. Lo stupore che con la «lieta novella» di quella mite sera d'ottobre ci invase l'animo, ancora oggi non ci abbandona. Momenti magici d'una sera d'ottobre! Ad essi torniamo sempre con la stessa gioia, lieti e fieri, poiché d'un colpo avevano reso reale la chiaroveggente fantasia del poeta e ci imponevano di meditare sulla imperscrutabile volontà ed immensità della grazia divina. E fu il Papa stesso che, nel suo primo Urbi et Orbi, interpretò i nostri pensieri di allora e di ora pronunciando le parole di S. Paolo: «O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi ed inaccessibili le sue vie!» (Romani 11, 33). Torniamo brevemente a quella storica serata d'ottobre. Quando la fumata bianca si alzò finalmente sulla Cappella Sistina (erano le ore 18,18), la folla immensa che da due giorni gremiva la piazza di S. Pietro esultò di gioia. Contro i muri della antica basilica che nascondeva ancora il volto del nuovo Pastore della Chiesa si abbatté il tuono degli applausi. La guardia svizzera, accompagnata dalla banda e dalla grande bandiera papale, fece il suo ingresso. Erano le ore 18,44 e l'attesa sembrava eterna. Ma ecco: nella loggia centrale della Basilica balena la croce e, nella luce dei riflettori, compare il Cardinale Pericle Felici con il solenne seguito. Pronuncia la rituale formula di promulgazione, di volta in volta interrotta dagli applausi: «Annuntio vobis gaudium magnum, habemus Papam: Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum, Dominum Carolum Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Wojtyla, qui sibi nomen imposuit Joannem Paulum Secundum». Udendo quel nome esotico (per di più pronunciato in modo perfetto dal porporato), la folla trattiene il respiro... Un papa non-italiano? Un papa straniero? Pape de frontière? Era proprio così. Così come accadde per l'ultima volta nel lontano 1522, quando il cardinale di Tortosa e luogotenente generale di Spagna (e ancor prima professore di Lovanio), l'olandese Adriaan Florensz Dedel, divenne papa con il nome di Adriano VI. La scelta di un non-italiano, l'interruzione di una secolare tradizione ormai diventata quasi legge, stupì tutti. E la meraviglia si fece ancor più grande quando divenne chiaro che questo esotico Wojtyla era un polacco, il metropolita di Cracovia, di cui la stampa non si era mai curata nei suoi pronostici sui papabili. Polacco? Specie gli Italiani erano increduli. Ma ecco, fra la folla passa un brivido d'entusiasmo e già si sente dire: «bene», «benissimo»; in breve tutti gridano: «molto bene!», ammirevolmente concordi sul fatto che finalmente, dopo oltre quattro secoli, uno straniero veniva loro dato come Vescovo di Roma. (1) Juliusz Slowacki, nato nel 1809 e morto nel 1849, insieme con Adam Mickiewicz e Z. Krasinski, forma la triade dei poeti più illustri del Romanticismo polacco. Tra le sue opere, "Re Spirito" ("Król Duch") è la più liricamente realizzata e densa di significati: nel lungo poema in ottave, l'Autore - rifacendosi al mito platonico di Er - immagina che lo spirito dell'eroe si reincarni nella mistica figura di Popiel, capostipite della nobiltà polacca, e quindi, successivamente, nei vari re di Polonia, da Mieczyslaw a Boleslao il Coraggioso, scegliendo i momenti più significativi della storia della nazione e della stessa vicenda personale del poeta, la cui anima si sente profondamente partecipe di quella storia e di quello spirito, destinato da Dio a redimere la Polonia con la potenza del suo canto.

STUPORE E GIOIA

Attraverso l'etere la voce risonante del Cardinal Felici, l'«Habemus Papam», percorse il mondo. Al comunicato, ecco subito i primi commenti. Dappertutto la notizia suscitava stupore, sembrava straordinaria. Ma dove stupore e gioia furono più profondi, fu in Polonia, per la consapevolezza della rilevanza del momento. Chi se non un Polacco si affacciava adesso, per la volontà dello Spirito Santo e dei cardinali elettori, sul balcone della Basilica di Pietro? Erano le ore 19,20. Ognuno scrutava attentamente il volto di quell'uomo che assumendo il nome di Giovanni Paolo II diveniva vescovo di Roma, Vicario di Cristo, successore del Principe degli Apostoli, Supremo sacerdote della Chiesa Cattolica, Patriarca dell'Occidente e Primate d'Italia, Arcivescovo e Metropolita della Ecclesia romana e Sovrano dello Stato del Vaticano. Un volto dai lineamenti forti e marcati, reso dolce da un lieve sorriso, le braccia aperte e alzate nel gesto di un grande abbraccio. Accanto a lui, alla sua destra, in atteggiamento protettivo, nobilmente impensierito, stava il cardinale Stefan Wyszynski; a sinistra la vivace e gioviale figura del cardinal Felici. C'era anche Mons. Virgilio Noè, il cerimoniere papale, e poi gli altri cardinali in una riga purpurea, tutti presi da una gioia immensa così come lo era la gente nella piazza e nei vicoli sottostanti. Il Papa polacco, oppure il Papa Wojtyla (come è stato chiamato da allora) pronuncia il suo discorso, che è breve, commovente, destinato a rimanere memorabile per chiunque lo abbia sentito: «Sia lodato Gesù Cristo»... nell'aria risuona in italiano questo saluto che quindici anni prima era stato pronunciato in lingua polacca da Papa Paolo VI in risposta all'omaggio rituale del vescovo Wojtyla. Il nuovo pontefice continua con voce solenne, non senza però un certo imbarazzo: «Carissimi fratelli e sorelle, siamo ancora tutti addolorati dopo la morte del nostro amatissimo Papa Giovanni Paolo I. Ed ecco che gli Eminentissimi Cardinali hanno chiamato un nuovo vescovo di Roma. Lo hanno chiamato da un paese lontano...; lontano, ma sempre così vicino per la comunione nella fede e nella tradizione cristiana. Ho avuto paura nel ricevere questa nomina, ma l'ho fatto nello spirito dell'ubbidienza verso Nostro Signore Gesù Cristo e nella fiducia totale verso la sua Madre, la Madonna Santissima. Non so se posso bene spiegarmi nella vostra... nostra lingua italiana. Se sbaglio mi correggerete. E così mi presento a voi tutti, per confessare la nostra fede comune, la nostra speranza, la nostra fiducia nella Madre di Cristo e della Chiesa, ed anche per incominciare di nuovo su questa strada della storia e della Chiesa, con l'aiuto di Dio e con l'aiuto degli uomini». E dopo questo primo discorso, la prima benedizione Urbi et Orbi: il primo legame allacciato con Roma, con la Chiesa e con tutto il mondo. Il nuovo Papa. Il Santo Padre Giovanni Paolo II. Il Polacco.

LA STRADA PER ROMA

Anni fa, il 5 ottobre 1962, quando era in procinto di partire per il Concilio Vaticano II, nella cattedrale di Wawel parlava della «strada della nostra storia» che porta verso la cultura d'Occidente, «la strada dei pastori, dei vescovi e dei santi che ci lega con il Regno Celeste qui, sulla terra», di «quella strada da Cracovia a Roma, dalla tomba di S. Stanislao alla tomba di S. Pietro, sulla quale camminiamo già da secoli, da un millennio intero». Non mancavano in quei discorsi i toni personali, che letti oggi, quando ormai il Metropolita di Cracovia è diventato Pastore della Chiesa Universale, suonano in modo singolare: «Carissimi fratelli nell'episcopato, nel sacerdozio e nella grazia del battesimo, mi è lecito di dire adesso che su questa strada, su questo grande itinerario storico che porta dalla tomba di S. Stanislao alla tomba di S. Pietro, entro con una personale e profonda commozione, con un'interiore trepidazione, con un profondo senso di responsabilità per tutto ciò che accade presso la tomba di S. Stanislao e per tutto ciò che dovrebbe accadere presso la tomba di S. Pietro, a Roma». Quali vicissitudini hanno portato Giovanni Paolo II su quel «lungo percorso» che per volontà di Dio lo doveva elevare al soglio di Pietro? Come si delinea la personalità del Santo Padre nei periodi e nelle situazioni di cui sono testimonianza di affascinante immediatezza le prime fotografie che vi presentiamo in questo libro?

LA PICCOLA CITTÀ

Wadowice è una cittadina calma e linda che sorge presso il fiume Skawa, ai piedi della catena boschiva di Beskid Maly (Beskid Minore), fondata nei lontani tempi dei Piast (2) (1327). Non è mai uscita dalla sua modesta provincialità e dal suo folclore montanaro, che tra le due guerre diventò famoso per le sculture in tiglio di statue di santi, opera del contadino autodidatta Jedrzej Wowra. Distante da Cracovia una cinquantina di chilometri nella direzione sud-ovest, questa cittadina conta oggi oltre 10.000 abitanti, pressappoco quanti ne contava prima della seconda guerra mondiale. Ma anche se piccola e poco appariscente, Wadowice, fino al 1939, coltivava con zelo certe sue tradizioni: una fervida vita intellettuale sfociava in attività letterarie e teatrali, e ci furono tempi in cui esse fecero parlare di sé anche oltre le mura della città. Anche l'attività della chiesa era vivace ed eterogenea, grazie, prima di tutto, alle congregazioni dei Pallottini, dei Carmelitani, delle Nazaretane, e poi per la vicinanza di Kalwaria Zebrzydowska, dove si trovano il noto santuario mariano e il convento dei Bernardini. La Kalwaria ha influenzato in modo particolare l'atmosfera di Wadowice, fin da quando il voivòda Nicola Zebrzydowski, signore peraltro testardo e sedizioso, vi eresse il monumento barocco alla sua devozione. Già di lontano si scorge sulla montagna Zarl il tempio da lui fondato e dedicato alla Madonna degli Angeli, con dentro la sua effigie miracolosa. Non lontano di lì, sulle collinette d'intorno che portano nomi evangelici (colle Maria, Monte degli Ulivi, ecc.) sono sparse circa quaranta cappelle che ricordano la Via Crucis, unite fra loro da tante aiuole dette «sentieri di Maria». La piazza centrale della città di Wadowice è dominata dalla chiesa parrocchiale. All'entrata vediamo una lastra commemorativa, messa là nell'anno 1925 dall'Unione Cattolica delle Donne Polacche, in omaggio allo scrittore Henryk Sienkiewicz (3).Dentro, dall'altare dorato di una delle cappelle, emerge il volto della Madonna dell'Incessante Aiuto; ma la chiesa, severa malgrado la sua costruzione barocca, porta il nome del Sacrificio della Santissima Maria Vergine. Nella navata di sinistra vediamo una nicchia con una lastra, ormai centenaria, dedicata ai propri genitori da Jan Nepomucen, famoso professore di prospettiva e di anatomia dell'accademia delle Belle Arti di Cracovia. Subito accanto, un'altra lastra, fissata sopra un fonte battesimale scavato in pietra e chiuso con un coperchio d'oro. Su di essa una scritta ci indica che il fonte è stato messo là nel cinquantesimo anniversario del battesimo amministrato a Karol Wojtyla proprio tra queste mura. Giovanni Paolo II nacque infatti il 18 maggio 1920 a Wadowice e un mese dopo, il 20 giugno, venne battezzato. «Quando col pensiero mi rivolgo indietro a guardare il lungo cammino della mia vita - ha detto il Papa nella sua città natale, durante il viaggio in Polonia, considero come l'ambiente, la parrocchia, la mia famiglia, mi hanno condotto al fonte battesimale della chiesa di Wadowice, dove il 20 giugno 1920 mi fu concessa la grazia di divenire figlio di Dio, insieme alla fede nel mio Redentore. Questo fonte battesimale l'ho già baciato una volta solennemente nell'anno del Millennio del Battesimo della Polonia, quando ero arcivescovo di Cracovia. Poi l'ho fatto per la seconda volta (...) nel cinquantesimo anniversario del mio battesimo, quando ero ormai cardinale. Oggi desidero baciarlo ancora una volta come Papa, successore di San Pietro». Nel Liber natorum della parrocchia (esattamente sotto il numero 671, nella pagina 549 del IV volume dell'anno 1920) troviamo registrato che in quella giornata di giugno il figlio di Emilia Kaczorowska Wojtyla e di Karol Wojtyla è stato battezzato dal reverendo Franciszek Zak, cappellano militare, e suoi padrini erano Józef Kucmierczyk e Maria Wiadrowska (i loro nomi sono stati annotati erroneamente). Il Santo Padre, figlio minore di Karol e di Emilia Wojtyla (la prima figlia morì subito dopo la nascita) ricevette al battesimo due nomi: Karol, Józef (Carlo, Giuseppe). La madrina Maria Wiadrowska, il cui marito aveva a Cracovia un negozio di corniciaio, era una delle sorelle della signora Emilia; l'altra era la sposa di Józef Kucmierczyk, proprietario di un noto ristorante che si trovava all'angolo di via S. Anna con via Wislna. I signori Wojtyla, sposatisi il 10 febbraio 1906, ebbero il secondo figlio, Karol, in età non più giovane. Abitavano a due passi dalla chiesa, in una casa, che ancor oggi esiste, modesta e semplice, in via Kogcielna (via della Chiesa) numero 7. Vi si accede per un portoncino stretto che conduce in un piccolo cortile. Al primo piano, due stanze. È qui che la famiglia Wojtyla abitava, e qui dalle finestre si vede la grigia parete della chiesa, sulla quale, accanto all'orologio solare, è scolpita una singolare sentenza: «Il tempo fugge - l'eternità ci aspetta». (2) È la dinastia fondatrice dello Stato polacco; Mieszko I Piast, nel 966, ricevette il battesimo con tutto il suo popolo. Di questa dinastia, che regnò sulla Polonia fino al 1370, fece parte il famoso re Boleslao l'Ardito o il Caraggioso (1058-1079). (3) Henryk Sienkiewicz (1846-1916), discendente da una nobile famiglia di proprietari terrieri, è il famoso autore di "Quo vadis?" nonché di numerosi altri romanzi e resoconti di viaggi. Nel 1905 gli venne conferito il Premio Nobel per la letteratura.

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LA FAMIGLIA DEL PAPA

Il padre del ragazzo, un uomo profondamente religioso, amante della disciplina e dell'ordine, gentile, anche se non molto socievole, era militare di professione. All'inizio della carriera aveva prestato servizio nell'armata austriaca; in seguito era passato nelle legioni, e quando la Polonia riacquistò l'indipendenza (1918), aveva lavorato come impiegato nel Comando Regionale della Riserva a Wadowice, appartenendo, come ufficiale, al 12° reggimento di fanteria. Figlio di Maciej e Anna de domo Przeczka, avrebbe dovuto continuare il mestiere del padre che faceva il sarto; chiamato però per il servizio militare, rimase nell'esercito in qualità di sottufficiale prima, e di ufficiale poi. Ricevette una istruzione secondaria; presso la scuola cosiddetta «popolare» fece tre classi di ginnasio, che nel sistema scolastico polacco contemporaneo equivalgono alla scuola elementare. Sempre però si distingueva per la diligenza e la coscienziosità esemplare, per la quale era stimato dai superiori. Rimase nell'esercito fino al 1928 (ormai era un esercito polacco!), quando, come riporta l'«Annuario degli Ufficiali del Ministero della Difesa», fu collocato a riposo. Suo padre, il nonno del Papa, era originario del paese di Czaniec, che dista venti chilometri da Wadowice ed è vicino a Kety, un'altra città dove, qualche secolo prima, nasceva l'orgoglio dell'Accademia Cracoviense, il teologo Jan Kanty, proclamato poi santo. Quando il giovane prete Wojtyla si recò a Czaniec, in una sua omelia parlò con orgoglio del nonno, ricordando come egli guidasse i pellegrinaggi a Kalwaria Zebrzydowska (e ne ha parlato ancora, quando, già papa, è tornato a quel santuario) e come, probabilmente, cantasse con la sua voce bella al pari di tutti gli altri Wojtyla, semplici contadini, famosi come cantori della chiesa.

Wojtyla a pochi mesi in braccio alla mammaKarol Wojtyla a pochi mesi in braccio alla mamma

VITA MODESTA E PIA

Il ramo di Wadowice dei Wojtyla conduceva una vita modesta e pia nel suo ambiente militare e impiegatizio. Mentre il figlio maggiore Edmondo frequentava il ginnasio locale, per iscriversi poi alla facoltà di medicina di Cracovia, il piccolo Karol, più giovane del fratello di 14 anni, frequentava l'asilo presso le suore Nazaretane e poi la scuola elementare. Si racconta che la madre soleva dire di Karol che sarebbe diventato un grande uomo. Ma sarà poi vero? Comunque di lei sappiamo molto poco. A dar retta alle fotografie sembra che il Papa, nei tratti del viso, assomigli più alla madre che al padre. Senza dubbio era lei, la madre, a creare l'atmosfera della casa di via Koscielna; un'atmosfera normale, non priva di preoccupazioni, ma piena di calore, serenità e quiete familiare. Non era facile tirare avanti, e la signora Emilia spesso si metteva alla macchina da cucire per dare una mano al marito. Nei momenti liberi amava andare a Cracovia per far visita alle tre sorelle, e naturalmente per incontrare il figliolo Edmondo, studente in medicina. La gente si ricorda che in questi viaggi portava con sé il piccolo Karol. Ma questa atmosfera idillica durò poco: la madre, da sempre cagionevole di salute, a soli quarantacinque anni morì, piombando tutti nella più profonda costernazione. Il signor Wojtyla si recò con i figli al santuario di Kalwaria per pregare secondo l'intenzione della defunta, e in questo luogo tornerà sempre Wojtyla ogni qual volta la vita lo metterà di fronte a grandi gioie e dolori. Per questo quel luogo è tanto caro al Papa.

IL FRATELLO MEDICO

«Non so addirittura come ringraziare la Divina Provvidenza - diceva il Santo Padre commosso, quando ancora una volta si è trovato a Kalwaria, una delle tappe del suo viaggio pellegrino in Polonia che mi è dato ancora una volta di visitare questo luogo. Kalwaria Zebrzydowska, il Santuario della Madre di Dio, i luoghi sacri di Gerusalemme legati alla vita di Gesù e della Sua Madre, riprodotti qui, le cosiddette 'Stradette'. Le ho visitate molte volte, fin da ragazzo e da giovane. Le ho visitate da sacerdote. Particolarmente, ho visitato spesso il Santuario di Kalwaria da Arcivescovo di Cracovia e da Cardinale. Venivamo qui molte volte, io e i sacerdoti, per concelebrare dinanzi alla Madre di Dio. Venivamo nell'annuale pellegrinaggio d'agosto ed anche nei pellegrinaggi di determinati gruppi nella primavera e nell'autunno. Più spesso, però, venivo qui da solo e, camminando lungo le stradette di Gesù Cristo e di Sua Madre potevo meditare i loro santissimi Misteri, e raccomandare a Cristo, mediante Maria, i problemi particolarmente difficili e di singolare responsabilità nella complessità del mio ministero. Posso dire che quasi nessuno di questi problemi è maturato se non qui, mediante l'ardente preghiera dinanzi a questo grande Mistero della Fede, che Kalwaria nasconde dentro di sé». Il dolore per la scomparsa della cara madre non era ancora sopito quando, tre anni dopo, il 4 dicembre 1932, anche il figlio Edmondo, appena ventiseienne, la seguì nella tomba. Si era contagiato mortalmente di scarlattina settica, durante la sua opera di medico presso l'ospedale di Bielsko. Sulla sua lapide funeraria sta scritto: «La sua giovane vita in sacrificio per l'umanità sofferente». Il caso fece clamore. In un articolo di giornale, intitolato «Un medico muore sul posto di lavoro» si poteva leggere: «Il Dr. Edmund Wojtyla è morto il 4 dicembre, dopo quattro giorni di grave malattia. Dieci giorni prima aveva passato la notte al capezzale di un'ammalata di scarlattina, nel tentativo vano di salvarle la vita. Il contagio da virus fu il suo verdetto di morte». L'articolo continuava poi nella descrizione della figura del giovane medico: «Nato a Cracovia nel 1906 compì, con ottimi voti, gli studi ginnasiali e si iscrisse alla facoltà di medicina a Cracovia. Pur lottando contro le cattive condizioni finanziarie, conseguì la lode in tutti gli esami e giunse alla laurea fra i primi in graduatoria nell'anno . Dopo un breve periodo di pratica nell'ospedale pediatrico di Cracovia, fu assunto in qualità di assistente nell'ospedale di Bielsko dove, quasi dimentico di se stesso, prestava la sua opera con entusiastica dedizione, fino a che non lo ha tradito la perfida malattia. Egli amava arricchire la sua già eccellente istruzione con uno studio continuo ed univa alla sua sapienza le doti di un cuore compassionevole. Per questo era amato da tutti; perché il Dr. Wojtyla era un uomo eccezionale, destinato a divenire un ottimo medico, da cui l'umanità poteva aspettare molto, veramente molto». Al suo funerale vi era molta gente.

LA CASA VUOTA

La casa di via Koscielna di colpo divenne vuota, terribilmente vuota, proprio negli anni della prima giovinezza di Karol Wojtyla. Nella memoria degli amici è rimasto il ricordo di quel momento, quando al giovane Karol fu data la notizia della morte del fratello: con stupore si sentì dire da quel ragazzo appena dodicenne: «Questa era la volontà di Dio». Ma c'è chi lo vide, in quel triste giorno, seduto su di una panchina con la testa tra le mani. La giovinezza del futuro Giovanni Paolo II era ormai segnata dalla solitudine. Non che il padre, uomo dotato di grande serenità interiore, non lo circondasse di protezione e di tenerezza. Spesso li vedevano insieme durante le passeggiate oppure a pranzare nel ristorante «Da Banas». Il Natale e la Pasqua, poi, li passavano in compagnia della zia paterna che insegnava a Biala. Non senza significato era il fatto che il giovane Karol, un ragazzo robusto e pieno di vita, intelligente e capace nell'organizzarsi nel lavoro, fosse dotato di carattere energico e deciso, reso più saldo da una serena religiosità. Non avrebbe mai ceduto ai colpi del destino avverso, né si sarebbe disperso in una mediocre vita cittadina.

UN BUON ALLIEVO

Dopo la scuola popolare Karol frequentò il ginnasio (il padre, scartate le scuole private dei religiosi, lo aveva iscritto alla statale «Marcin Wadowita», probabilmente per poter usufruire di uno sconto del 50% sulla retta). Dai registri della scuola, che la guerra non ha distrutto, possiamo documentarci sul suo buon profitto nelle prime classi. I «molto bene» in tutte le materie ne fanno fede. Il fatto invece che durante l'ultimo anno scolastico i «bene» siano stati soltanto due fu giudicato, dagli stessi compagni di classe, come un atto di mera ingiustizia dei professori, severi sì, ma anche un po' maligni. Non conosciamo invece i voti dell'esame di maturità, perché dallo schedario mancano i duplicati del diploma, che andò disperso durante la seconda guerra mondiale. Sappiamo però che l'esito dell'esame di maturità fu eccellente e con un premio finale. Ma egli non era soltanto un buon allievo: trovava anche il tempo di dedicarsi con passione al teatro, sia in qualità di regista sia come attore. Durante il ginnasio frequenta infatti il «circolo d'arte drammatica» della scuola, diretto dal professore di lingua e letteratura polacca, Kazimierz Forys, famoso per le sue pubblicazioni. Con lui mette in scena le opere dei nostri grandi poeti romantici (4); del commediografo Aleksander Fredro (5); e del poeta e drammaturgo Stanislaw Wyspianski (6). (4) Il Romanticismo polacco è uno dei momenti più alti della storia letteraria del paese; il primo poeta che rompe con la tradizione classica è A. Mickiewicz (1798-1855), autore dell'epopea nazionale «Pan Tadeusz» («Il signor Taddeo») e del famoso dramma «Dziady» («Gli avi»). Altri nomi importanti sono il già ricordato Slowacki, Z. Krasinski (1812-1859) e il post-romantico C. Norwid (1821-1883). (5) Aleksander Fredro (1793-1876) fu il creatore della commedia polacca. Tra le sue opere più note ricordiamo «Le dame» e «Gli ussari», «Voti di fanciulle», «La vendetta», «Marito e moglie». (6) Stanislaw Wyspianski (1869-1907), pittore, poeta e drammaturgo polacco, fu attore di numerosi drammi ispirati alla tragedia classica e ai maggiori problemi nazionali, tra cui «Le nozze» (1901), «Liberazione» (1903) e «La notte di novembre» (1904). È considerato il rinnovatore del teatro polacco. Come pittore, si ricordano di lui gli affreschi della Chiesa dei Cappuccini a Cracovia.

L'ATTORE WOJTYLA

Lo stesso repertorio fu proposto al circolo d'arte drammatica parrocchiale diretto dall'allora prefetto del ginnasio, reverendo Zacher, che divenne poi il parroco di Wadowice. L'attore Wojtyla si poteva spesso ammirare, non solo nella sala parrocchiale, ma anche in quella della società «Sokòl» (il falco), per la sua bella voce, la vocazione al canto, la sua prestanza fisica, ma soprattutto per la passione per il teatro di cui prediligeva le questioni teoretiche. Di grande aiuto gli fu, in quel periodo, la presenza dell'insegnante di Sosnowiec Mieczyslaw Kotlarczyk, che con la sua erudizione ed il suo fervore sapeva creare intorno a sé un'atmosfera di vero amore per la scena. Egli sognava un vero palcoscenico, quello che poi, dopo pochi anni, si sarebbe materializzato con il nome di «Teatro Rapsodico». Intanto Kotlarczyk spesso e volentieri amava incontrarsi con questi giovani corteggiatori di Melpomene, e con essi s'intratteneva in allegre serate animate dalla musica e dal canto, facendo lunghi discorsi sulla sua più grande passione: il teatro. Durante quelle riunioni, il futuro Papa appariva il più vivace ed attivo. Fu così che nacque la grande amicizia fra Karol Wojtyla e Mieczyslaw Kotlarczyk, che sarebbe durata fino alla morte dell'amico, nell'anno. Il giovane Wojtyla non disdegnava neppure lo sport. Dal fratello maggiore aveva appreso le prime regole del giuoco del calcio. Il cortile di casa, e poi la strada e le piazze vicine, furono i suoi primi campi da giuoco. Amava anche lo sci, che gli era famigliare per averlo praticato fin dagli anni più teneri. Il signor Wojtyla, intanto, vegliava discretamente sullo svolgimento ordinato di tutte queste molteplici attività, attento a non affaticare troppo il figlio con i doveri domestici.

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UN CALCIO BEN TIRATO...

Emmanuel Mounier, filosofo francese e pubblicista cattolico, scrisse una volta spiritosamente: «Come amerei sapere che i giovani cattolici ammirano le stelle, così vorrei anche vedere nel parroco un sostenitore della squadra di calcio. Una rete segnata bene è un primo slancio verso le stelle; un ottimo mezzo per rinfrescare l'atmosfera della chiusa vita interiore». Non si sa se il parroco di Wadowice fosse un sostenitore del calcio, e non si sa nemmeno se fosse contento del giovane calciatore: si dice che Wojtyla, con un tiro messo a segno, ruppe la vetrata della chiesa... Questo giovane però, pur occupandosi dello sport, o portando sulla scena i personaggi sublimi del conte Henryk (7) e dello spensierato Gucio (8), pensava anche alle «stelle». Si sapeva che lo studente amava ritirarsi in casa per immergersi nella lettura dei filosofi; forse di tanto in tanto gettava l'occhio sulla sentenza ammonitrice: «Il tempo fugge...» scolpita sulla chiesa dirimpetto. Egli stupiva i suoi compagni di scuola per la sua profonda conoscenza dei testi filosofici. (7) Il «conte Henryk» è un personaggio della «Non Divina Commedia» di Z. Krasinski (1835); è il rappresentante tipico dell'ala conservatrice della nobiltà polacca «La non Divina Commedia» fu scritta dal non ancora ventenne poeta con una precoce e folgorante intuizione (tredici anni prima del '48) dell'inevitabile scontro tra aristocrazia e proletariato, da cui emergerà vittoriosa l'idea cristiana. (8) «Gucio» è un carattere brillante e affascinante della commedia «Voti di fanciulle» di A. Fredro.

DEBUTTO SULLA STAMPA

Lo si poteva anche incontrare in chiesa con lo scapolare sul collo; lo stesso scapolare con il quale - come metropolita - fu visto girovagare per i Tatra e andare in canoa lungo i laghi Masuri. Ancor giovinetto, serviva messa e presiedeva il circolo dei chierichetti. A questa sua funzione è legato il suo primo singolare debutto sulla stampa. Era accaduto infatti che Karol era stato l'organizzatore e l'animatore di una grande festa di addio in onore del reverendo Kazimierz Figlewicz, fondatore e assistente del circolo dei chierici, il quale era costretto a lasciare i suoi amati ragazzi di Wadowice perché destinato come vicario della Cattedrale di Cracovia. Sul «Dzwoneczek» («Il campanello») del , appendice del settimanale di Cracovia «Dzwon niedzielny» («La campana domenicale»), fu pubblicata, con tanto di fotografia, la descrizione di quella cerimonia. Ebbene, l'autore di quell'articolo fu proprio l'allora tredicenne Karol, il futuro Papa Wojtyla, che si firmava «Prezes» (il Presidente). Riportiamo qui due frammenti di quel simpatico debutto giornalistico: «Il 10 agosto - leggiamo all'inizio - il nostro circolo dei chierici salutava il suo assistente, reverendo prof. Kazimierz Figlewicz, che partiva per assumere un nuovo incarico presso la Cattedrale di Cracovia. Da quando esiste la nostra organizzazione, egli ne era il generoso protettore. I chierici lo amavano ed hanno espresso questo sentimento nel momento dell'addio. Era infatti per loro come un padre. Che trovi la giusta stima il suo nobile lavoro, non tra gli uomini, ma nella giustizia divina, dove avrà anche adeguata ricompensa! Non di questo allora devo scrivere, ma del congedo. Nel giorno della partenza, tutti i ragazzi si sono raccolti nella chiesa per la S. Messa. Alle 8,30 il reverendo inizia il sacro rito durante il quale i chierici cantano inni religiosi. Dopo la messa essi chiedono all'assistente di posare assieme a loro per una fotografia ricordo. Vestiti in cotta e mantella si sono disposti in cerchio ed ai suoi piedi hanno deposto i fiori. Dopo di ciò è arrivato il vero momento del commiato: io sono stato scelto per pronunciare le prime parole di saluto. Dopo di me ha parlato il collega Gaska Stanislao, che ha salutato calorosamente il nostro reverendo». Nell'articoletto è citato per esteso il discorso di quel Gaska (con il quale Karol si esibiva anche sulla scena), ed infine il «Presidente» così conclude la sua relazione: «Di tanto in tanto l'oratore si fermava perché il pianto non gli permetteva di proseguire. Le lacrime hanno cominciato a scorrere sul viso del reverendo; piangevano anche i ragazzi per il dispiacere di doversi staccare da lui. Dopo di che si son tutti un po' ripresi all'arrivo dei gelati e della cioccolata, ma nei loro cuori senz'altro sono rimasti tristezza e rimpianto. Ed ora, caro nostro assistente, nel nome del circolo orfano, Ti ringrazio del tuo lavoro pieno di sacrifici, per la tua fatica; per la tua dedizione per noi. Che Dio Ti accompagni sempre con la Sua protezione».

Papa Giovanni Paolo II - Wojtyla

PRETE? NON ANCORA...

Il futuro Papa apparteneva anche alla «Congregazione Mariana» ed alla «Associazione della gioventù cattolica». Tutti erano sedotti dalla sua rettitudine senza limiti che pareva essere indivisibile da lui. Supponevano allora che il ragazzo che «si compiace della legge del Signore» (Salmo 1, 2), dopo l'esame di maturità, avrebbe scelto la strada del seminario. Non poteva essere diversamente! La religiosità di Karol era così marcata e dominante, che neanche l'amore per il teatro, la passione per la letteratura e la predilezione per lo sport potevano distoglierlo da questa vocazione. E invece no; lui non aveva l'intenzione di diventare prete. «Che peccato, però», sospirò l'arcivescovo Adam Stefan Sapieha, allora metropolita di Cracovia, quando, durante la visita al ginnasio, venne a sapere che l'insolito «primo della classe» che lo aveva salutato a nome di tutti gli allievi con una bella arringa, invece di indossare la tonaca, preferiva andare a studiare letteratura. Era il 6 maggio 1938. Il Principe Metropolita (come veniva chiamato da tutti) guardava con tristezza questo bravo allievo; ma il vescovo con i capelli grigi, la faccia ascetica ed i grandi occhi penetranti, ed il giovane alto dal volto interessante, dopo quella cerimonia nell'aula della scuola, erano destinati ad incontrarsi ancora. «Dal mattino alla sera il tempo cambia; e tutto è effimero davanti al Signore» (Eccl., 1 8, 26). Adesso però, in questo felice periodo della liberazione dalla scuola, tutto sembrava scorrere verso un'altra direzione. Una settimana dopo, il 14 maggio, Karol dava gli esami e veniva licenziato. Il 27 maggio salutava il ginnasio pronunciando un nuovo discorso a nome dei quarantadue allievi promossi. Nel resoconto del direttore è rimasta una annotazione: «L'allievo Wojtyla si è rivolto agli insegnanti con parole di caloroso ringraziamento promettendo che i loro consigli sarebbero stati seguiti come perenne guida». Il gruppo dei giovani, tra i quali erano i figli contadini ed i colleghi di fede mosaica, lasciavano così quel ginnasio di via Adam Mickiewicz e lasciavano alle loro spalle una iscrizione in latino che per otto anni li aveva accompagnati: «Casta placent superis: pura cum veste venite et manibus puris sumite fontis aquam» («Ciò che è puro piace al cielo: venite con la vesta immacolata ed attingete l'acqua della fonte con mani pure») - l'iscrizione è oggi nascosta sotto l'intonaco.

GLI AMICI DEL GINNASIO

Questa scuola, eretta al tempo di Francesco Giuseppe grazie allo sforzo di tutti i cittadini di Wadowice, era per loro un motivo d'orgoglio sia per l'aspetto solenne, sia per il numero dei nomi illustri che in essa erano cresciuti in virtù dei principi irremovibili che aveva imposto e degli ideali che aveva saputo infondere. Il suo illustre patrono, Marcin Wadowita, figlio di contadini ed eminente concittadino, morto nell'anno , era non solamente rettore e professore di teologia all'Accademia cracoviense, ma anche un prete «attivista sociale», come lo si definirebbe oggi; infatti fondò la prima scuola parrocchiale ed il primo ospedale di quella città. Ma il gruppo dei giovani tornerà a varcare la soglia di questo ginnasio: tra loro si troverà sempre Karol Wojtyla; neanche la mitria gli impedirà di incontrarsi con i vecchi amici ai quali il destino assegnerà poi sorti diverse, a volte tragiche, come a chi, scoppiata la guerra, dovette indossare l'uniforme, o a chi andò a finire nei campi nazisti. Nel 1966 l'incontro ufficiale non ebbe luogo a causa della revoca da parte delle autorità, malgrado ricorresse il centenario della fondazione del ginnasio. Nessuno poteva essere d'accordo con questa assurda decisione. I vecchi compagni di scuola, assieme all'arcivescovo Wojtyla, non erano mancati all'appuntamento ed ora restavano profondamente delusi. Nel libro commemorativo troviamo scritta la conferma che mentre essi ricordavano sempre la vecchia scuola, la scuola non voleva più ricordarsi di loro.

LE BRIGATE DI LAVORO

Dopo l'esame di maturità, il futuro Papa lavorò per tre settimane di vacanze nei gruppi denominati «Brigate di lavoro». Il suo gruppo costruì un pezzo di strada (chiamata: «strada degli Arditi») che unisce Jablonka e Czarny Dunajec con Zakopane. Karol pernotta presso i montanari di Zubrzyca Góra e li stupisce per la sua devozione, insolita per un giovane Ardito. Non molto tempo dopo Wojtyla indosserà l'uniforme di soldato della Legione Studentesca. In questa organizzazione farà il corso introduttivo al servizio militare (come ha stabilito il rev. Adam Boniecki). Una volta licenziato dal servizio militare attivo, tornerà ancora a prendere parte alle esercitazioni fisiche presso la sede della Legione. Ecco come vestiva la recluta Karol Wojtyla: «Berretta quadrangolare 'rogatywka'; mantello di panno; giacca di panno; pantaloni di panno della fanteria; scarpe di pelle morlacca; mollettiere di panno; cintura militare di cuoio; cintura per i pantaloni; due paia di pezze da piedi».

NELLA VECCHIA CRACOVIA

Era ormai uno studente universitario. Per studiare la letteratura polacca, si era iscritto alla facoltà di filosofia dell'Università Jagellonica di Cracovia. Infatti allora, per studiare letteratura, bisognava iscriversi a questa facoltà. Wojtyla si dovette trasferire a Cracovia e trovò una stanza in via Tyniecka a Debniki. Questo quartiere proletario, con il suo mercatino rionale, con la torre bianca della chiesa, con le case modeste appollaiate intorno, assomigliava forse un po' a Wadowice e rendeva meno doloroso il distacco dalla città natale. Bastava però oltrepassare il ponte sulla Vistola per trovarsi subito nella vecchia, affascinante Cracovia. Dalla casa di via Tyniecka (che esiste ancora oggi) si poteva ammirare lo stupendo panorama del centro storico di Cracovia: le torri slanciate del castello e della cattedrale di Wawel e quelle della vicina chiesa di S. Stanislao a Skalka s'innalzano pittoresche oltre il fiume, sopra il terrapieno coperto di verde. Quella casa, a due piani e con il giardino, apparteneva alla famiglia della madre ed era abitata dalle zie Kaczorowski. Era senza dubbio più comoda dell'appartamento di via Koscielna: qui l'ospite aveva a disposizione due piccole camere nel seminterrato, le cui finestre, purtroppo, non guardavano verso il Wawel, ma semplicemente sul giardino.

ALL'UNIVERSITÀ

L'Università di Cracovia è una delle più antiche d'Europa, perché, essendo stata fondata nel 1364, sorse subito dopo quella di Praga; le vecchie mura di mattoni rossi, gli stupendi cortili rinascimentali, i vicoli di una particolare, melanconica aria cracoviense: in ogni passante si può sospettare un poeta, un illustre professore, un famoso pittore. Infatti Wojtyla vi incontrava tanti nomi illustri della letteratura polacca. E poi il gruppo dei giovani amanti della letteratura e del teatro, che oggi costituiscono la schiera degli scrittori più conosciuti e stimati, come ad esempio Juliusz Kydrynski, con il quale Karol allaccia rapporti di amicizia più stretti, poi Tadeusz Holuj, Tadeusz Kwiatkowski, Jerzy Lau, Marian Pankowski e Wojciech Zukrowski. Tutti costoro hanno creato il «Club dei Giovani artisti» ed hanno pubblicato un giornale della gioventù universitaria intitolato «Nasz wyraz» (che può essere tradotto come «nostra parola», ma anche come «nostra espressione»). Nel frattempo organizzavano concorsi di recitazione e concorsi letterari, e infine presentavano proprie opere davanti a un pubblico di giovani, sempre folto ed interessato.

UNA SERATA DEL 1938

Una di loro, Danuta Michalowska, oggi notissima attrice (per aver lanciato in Polonia la forma teatrale del monologo) e già molti anni prima personaggio in voga nel Teatro Rapsodico, ricorda una serata durante la quale Karol leggeva le sue poesie nella Casa Cattolica di Cracovia. Forse si tratta proprio di quella serata letteraria della quale si conserva ancor oggi una locandina, del 15 ottobre 1938, intitolata «Droga topolowy most» («Sulla via un ponte di pioppo») e nella quale figuravano i nomi di Jerzy Bober, Jerzy Kalamacki, Tadeusz Kwiatkowski e Karol Wojtyla. La locandina informava anche che le poesie erano recitate tra gli altri da Halina Królikiewicz-Kwiatkowska, oggi celebre attrice, e da Jacek Stwora, un noto giornalista e scrittore. Forse in quella stessa serata fu presentato il poema «Hiob», o forse «Geremia», o i «Salmi di Davide», tutte opere giovanili di Wojtyla ispirate al Vangelo, mai stampate, ma probabilmente esistenti ancora. Il gruppo teatrale «Studio 39» era stato formato dallo scrittore e critico Tadeusz Kudlinski con il proponimento di avviare una scuola d'arte drammatica e insieme un teatro sperimentale, libero dalla routine dei teatri professionali. Nei locali di via Slawkowska s'incontravano una cinquantina di ragazzi, qualche artista, alcuni studiosi, e come frutto del lavoro condotto durante l'anno 1939 fu messa in scena in giugno, durante le «Giornate di Cracovia», una commedia musicale, scritta appositamente da un poeta, oggi quasi dimenticato, Marian Nizynski, intitolata «Il cavaliere lunare». Il protagonista della commedia era un personaggio familiare ai Cracoviensi, il negromante Twardowski (9). Per otto serate, senza badare al cielo piovoso, fu presentato il diabolico cavaliere nel cortile del collegio Nowodworski, detto anche collegio S. Anna. Tra i portici di questo cortile splendeva un'enorme luna sulla quale saliva (con la scala) il mago Twardowski. (9) Twardowski, un Faust polacco, è il negromante che vissuto ai tempi di Sigismondo Augusto (sec. XVI), passò nella leggenda come colui che, dopo la morte della regina Barbara, moglie di Sigismondo, riuscì a evocarne lo spirito. Secondo la tradizione popolare, è la sua faccia che vediamo sulla Luna quando è piena, mentre nella mezzaluna se ne vede il profilo a cavallo.

IL PRIMO GIORNO DI GUERRA

Il giovane Wojtyla stava preparando un nuovo testo drammaturgico dedicato al personaggio di frate Alberto; ma i presagi di guerra si facevano sempre più evidenti: il 1° settembre, all'alba, caddero le prime vittime dell'aggressione tedesca. E che cosa poteva fare in un momento come questo un giovane studente di letteratura polacca, interprete del «Cavaliere lunare» e soldato della Legione studentesca esente dal servizio? Il reverendo Kazimierz Figlewicz non ha perso mai i contatti con il giovanissimo «Presidente», scambiando con lui lunghe lettere, ed ora di nuovo vede spesso Wojtyla che considera una persona veramente fidata. Ricorda bene il primo giorno di guerra: «Le incursioni aeree del mattino hanno suscitato il panico tra il personale della cattedrale; non c'era nessuno per servire la S. Messa. Era il primo venerdì del mese e Karol, come di consueto, è venuto a confessarsi per ricevere la Comunione. Questa pratica era severamente osservata dal giovane studente. Mi si è impressa nella memoria questa prima Messa di guerra, accompagnata dall'ululare delle sirene e dal rimbombo delle esplosioni». Prender parte alla funzione era una di quelle innumerevoli iniziative alle quali si dedicava con tutto lo zelo questo religiosissimo giovane, ma quella volta la sua partecipazione fu veramente eroica, e fu segno austero di un nuovo decisivo capitolo della sua vita. Ovviamente non era quello il momento di pensare ad intraprendere nuovi studi; l'armata di Hitler entrava in Cracovia il 6 settembre del 1939. Gli invasori governavano con vessazioni, illegalità, violenza e terrore. Alla fine di ottobre i Tedeschi avevano cacciato via dagli edifici della cattedrale, su Wawel, tutti gli abitanti: i preti ed i sacrestani con le loro famiglie. Tra questi senzatetto vi era anche il reverendo Figlewicz. Il 6 novembre dello stesso anno (primo anno della guerra) centottantasei professori dell'Università Jagellonica, raggruppati con un sotterfugio nell'aula magna dell'Università, venivano spediti nei campi di concentramento di Oranienburg-Sachsenhausen, da dove solo alcuni sono tornati a casa; questi erano i metodi dei nazi per cancellare la intellighenzia polacca dalla faccia della terra!

SOTTO IL TALLONE NAZISTA

Tra i deportati c'era il più noto biblista polacco, il reverendo professore Józef Archutowski, e fra le vittime di questa vile azione v'era l'illustre geografo professor Jerzy Smolenski, oggi vescovo ausiliario di Cracovia e, fino a poco tempo fa, collaboratore del cardinal Wojtyla. Nel castello di Wawel, la superba e magnifica sede dei re polacchi, si era insediato il governatore Frank, che ogni giorno impartiva ordini rivolti contro la nazione sconfitta. Uno di questi ordini (del 26 ottobre 1939) imponeva a tutti i cittadini, dai diciotto ai sessant'anni, l'obbligo di partecipare ai lavori pubblici; da questi erano escluse le persone che potevano provare di svolgere un «utile lavoro sociale». La disposizione precisava anche che tutti i cittadini sottoposti all'obbligo di lavoro dovevano essere spediti a costruire strade, stendere binari e svolgere lavori campestri. Per questo lavoro avrebbero ricevuto una ricompensa, a giudizio dei datori di lavoro. Ordini ancora più severi toccavano agli Ebrei: secondo una disposizione del 12 dicembre 1939, che, senza veli, parlava di «costrizione», tutti gli Ebrei dovevano essere presi per la durata di due anni, a scopo «educativo», per adibirli ai lavori suddetti, ed il limite di età scendeva fino a dodici anni. Di solito l'insubordinazione era perseguita con «multe arbitrarie» o con la prigione, ma agli Ebrei era riservata la prigione speciale e la confisca dei beni, secondo la decisione del tribunale. In questa situazione, mai chiara e sicura, la cosa migliore era trovare un lavoro «utile socialmente», come lo chiamavano i Tedeschi, e ricevere un certificato, detto Ausweis. Anche il giovane Wojtyla, che ora abitava con il padre, fu costretto a cercarsi un simile lavoro, per la necessità di guadagnare qualche soldo e far fronte al crescente carovita.

L'OPERAIO DELLA SOLVAY

Negli anni 1940-44 lavora come operaio nel Complesso «Solvay», un noto stabilimento di prodotti chimici, a Borek Falecki (sobborgo di Cracovia). Inizialmente era stato spedito nella cava di pietra della «Solvay» che si trovava tra Borek e Zakrzówek. Insieme a lui erano finiti là anche Juliusz Kydrynski e Wojciech Zukrowski, suoi colleghi di facoltà. «Si lavorava all'aperto - ricorda Kydrynski - ma sul fondo di una valle di creta e questo rendeva la cosa ancora sopportabile, anche perché, durante l'inverno, potevamo fare un salto, di tanto in tanto, in una baracca riscaldata da una stufa di ferro. In quella baracca potevamo rimanere non più di quindici minuti al giorno, il tempo per la colazione. Naturalmente la ditta non offriva la colazione: ognuno portava con sé, da casa, un pezzo di pane scuro con la marmellata e del caffè conservato in una borraccia di latta che veniva riscaldata su quella stufa». Il capo-cantiere della cava era un polacco che manifestava benevolenza verso quegli studenti. Ma il lavoro era ugualmente pesante; infatti ogni operaio doveva, in una giornata, riempire di pietre un vagone di media grandezza. «È chiaro che non essendo abituati a questo tipo di lavoro - scrive ancora Kydrynski - inizialmente non riuscivamo a realizzare neanche la metà di quel che ci ordinavano, perciò fummo adibiti ai lavori ausiliari che, del resto, non erano più leggeri degli altri. Si trattava in genere di asportare con la carriola il terriccio di sotto la pietra cavata, per dare una ripulita sul luogo, oppure di pompare l'acqua che scendeva sotto la falda. Naturalmente dovevamo usare arnesi manuali ed arcaici. Fu allora che ci rendemmo conto di quanto grande doveva essere la stanchezza degli antichi marinai, costretti a pompare acqua per ore intere, dai velieri in pericolo. Dopo qualche mese però, fummo trasferiti a spaccare la pietra. Ma dopo l'allenamento alla vanga ed alla pompa, il martello da roccia non ci spaventava più; dovevamo solo sapere come maneggiarlo ed in breve tempo lo imparammo. Innanzi tutto bisognava stabilire dove si trovava la fronte del macigno, poi lo si spaccava in modo che le schegge non ferissero né gli occhi né il volto; tutto qua. La pietra doveva essere spaccata in pezzi minutissimi con un minimo di colpi. Infine dovevamo caricare questi frantumi calcarei sui carrelli».

L'AIUTANTE DEL VECCHIO LABUS

Con il tempo Karol era diventato l'aiutante dell'artificiere Labus. «Tutti conoscevano la figura gobbuta del 'nonno' - scrive Kydrynski - che zoppicava sui pendii scoscesi con la cassetta piena dei candelotti oblunghi di materiale esplosivo e con la stoppa con la quale sistemava quelle cariche nelle apposite buche scavate nella roccia con il trapano pneumatico. Il 'nonno' era una parte inseparabile del paesaggio della cava. Karol era stato incaricato, per decisione della direzione, di aiutare l'artificiere Labus; doveva sostituire il 'capo' nella sistemazione delle cariche esplosive, mentre Labus vigilava sull'esattezza di questo lavoro. Poi, personalmente, accendeva la miccia. Tutti e due si allontanavano di corsa per mettersi al sicuro e tutta la 'ciurma' degli operai si nascondeva sul fondo della vallata, negli appositi ripari. Uno scoppio fortissimo strappava dalla parete le pietre che fragorosamente rotolavano giù; e di nuovo, quando la polvere si diradava, si tornava a udire il ritmico martellare dei colpi». In uno dei racconti di Zukrowski che prende spunto da quella esperienza in cava, c'è un certo Labus «con il naso schiacciato come una fragola», e anche se il personaggio principale del racconto non assomiglia per niente a Wojtyla, le sue parole sono comunque significative: «Di tanto in tanto Labus mi diceva di controllare i conti. Egli stava chino sopra di me, con gli occhiali e con la faccia cosparsa di una barbucola grigia; masticava un pezzo di pane scuro e mormorava: - Stia attento; qui tutto deve filare liscio, sino al grammo, perché Auschwitz è vicina». Se fosse mancato, infatti, anche un solo grammo di dinamite, la deportazione ad Auschwitz sarebbe stata sicura; i Tedeschi vegliavano, del resto senza successo, affinché questo materiale non passasse alla Resistenza polacca. Questo nuovo incarico presso il vecchio Labus naturalmente aveva suscitato un po' d'invidia, perché costituiva un avanzamento in graduatoria e poi perché permetteva di passare più tempo nella baracca. Karol, «lo studentino», «il pretino», come lo chiamavano con simpatia gli operai, si lamentava spesso però per il dolore alle mani; il lavoro non era leggero.

LA SOLIDARIETÀ OPERAIA

Ogni mese gli operai ricevevano la «tessera» per le sigarette, per un litro di vodka, per la marmellata, per qualche chilogrammo di pane nero, per qualche rimasuglio di carne, e anche un supplemento di provviste che spettava solo agli «Schwerarbeiter», gli addetti ai lavori pesanti, perché il «Solvay» era tenuto in molta considerazione dal Reich. Karol Wojtyla attirava l'attenzione per la sua calma e per la sua gentilezza: era riservato nel parlare e tranquillo, ma i segni della fatica si facevano sempre più marcati sulla sua faccia. Dimagrito, vestito di traliccio, con gli zoccoli ai piedi, sembrava un altro, e volentieri, assieme con gli amici, si accoccolava sul trenino che faceva la spola tra Zakrzówek e Borek per portare la zuppa ai lavoratori. Una volta era così stanco che, tornando dal lavoro, svenne per strada. Però, in seguito, ormai divenuto Metropolita di Cracovia, definì quel periodo duro ed estenuante, privo di qualsiasi speranza, «la migliore scuola di vita». Sempre ricordo quegli anni - diceva - con commozione e con grande riconoscenza per tutta quella gente buona che con me (sapevano che ero studente) era sempre generosa. Quelle brave persone mi dicevano così: «Senta lei, ha già fatto quello che doveva, prenda adesso il suo libro». E quando veniva il turno di notte dicevano: «Senta, lei ha già lavorato abbastanza; dorma adesso un po' e noi staremo a sorvegliare». E se c'era bisogno di rimanere per il secondo o per il terzo turno, mi portavano il loro pezzo di pane e mi dicevano: «Lei deve rimanere ancora qui; deve mangiare per resistere». Tra uomini di quel genere, tra gente di così buona volontà, nel cerchio di solidarietà umana così tipica in quei tempi di occupazione nazista, lo «studentino» solo in apparenza poteva sembrare rassegnato, sottomesso al destino; durante la «migliore scuola di vita» imparava non soltanto che cosa fosse la fatica fisica, ma anche a conoscere quell'ambiente sociale, e accumulava nuove preziose esperienze.

LA SANTITÀ DEL LAVORO

Tra tante poesie scritte da Karol Wojtyla (pubblicate sulla stampa cattolica sotto lo pseudonimo di Andrzej Jawien, oppure di Stanislaw Andrzej Gruda) ne troviamo una intitolata «La cava di pietra». Questo poemetto (la forma usata più spesso dal poeta) senz'altro si riferisce ai ricordi della «Solvay», e testimonia che là, nel cupo paesaggio fatto di pietra e di fatica umana, si evolveva una intensa vita spirituale. Il lavoro, secondo il poeta, viene trasfigurato dal pensiero che lo unisce al Creatore, e così esso stesso diventa solenne e indipendente, cancellando quasi le catene di schiavitù che lo hanno condannato. Ascolta, il ritmo uguale dei martelli, così noto, io lo proietto negli uomini per saggiare la forza d'ogni colpo. Ascolta, una scarica elettrica taglia il fiume di pietra ed in me cresce il pensiero, di giorno in giorno: che tutta la grandezza del lavoro è dentro l'uomo. [...] Non temere. Le azioni umane hanno le rive spaziose, non puoi costringerle a lungo dentro un alveo ristretto. Non temere. Nei secoli durano le umane azioni in Colui al quale guardi nel ritmo di questi martelli. E chi è il soggetto di queste azioni, chi è quell'uomo semplice quasi soggiogato dal lavoro fino a strapparsi le vene; chi sono quegli «uomini splendidi, senza formalità né maniere» che brulicano sul fondo di una madia di pietra? Ecco che cosa risponde l'Autore: Non solamente le mani calano giù col peso del martello, non solamente il torso si tende e i muscoli disegnano la loro forma, ma attraverso il lavoro passano i suoi pensieri più intensi per intrecciarsi in rughe sulla fronte, per congiungersi in alto, sopra il capo, nell'arco scuro di braccia e di vene. Quando così, per un attimo, divenne lo spaccato d'un edificio gotico che un filo a piombo traversa nascendo dal pensiero e dagli occhi, egli non è solamente un profilo, non è solamente una figura che si staglia tra la pietra e Dio - condannata alla grandezza e all'errore! In tutte le cose, allora, anche nella più insipida manifestazione della sua esistenza, l'uomo non cessa di essere una realtà particolare, ragionevole, legata, per la stessa entità dell'esistenza, a Dio. E basta che l'uomo non dimentichi la sua dimensione trascendentale ed il suo destino, per essere immune dalla corruzione della bestialità. Un vero uomo è una somma di pensieri e di sentimenti dignitosi, un monumento della loro irripetibilità, come un edificio gotico, quell'edificio di cui parla il poeta Wojtyla. Il poema si chiude con il commovente elogio degli uomini visti come una comunità, e con un ricordo elegiaco del vecchio compagno morto in un incidente di lavoro. «La cava di pietra» è un poema chiaramente personalistico intriso di filosofia del lavoro, o meglio di teologia del lavoro! Quando fu scritto (1956), che cosa voleva essere quel poema? Una semplice reminiscenza di Zakrzówek; di quei giorni inverosimili, quando si portava la miccia e la dinamite e il paiuolo con la sboba di patate; oppure una riflessione di un periodo già trascorso, di tempi e di circostanze ormai diverse? È difficile dirlo. Ma le vicissitudini del periodo nazista testimoniano che il giovane Karol si difendeva con tutta la forza dai «punti vuoti della pietra» («... nelle pietre ci sono dei vuoti, ed è meglio non trovarli!..»), si difendeva dalla schiavitù, dall'annullamento spirituale quando il tormento, l'ingiustizia e l'umiliazione sembravano scacciare Dio e privare gli uomini della Sua grande presenza che arricchisce. Si difendeva non soltanto dalla cava della «Solvay», o dalla caldaia, o dal reparto della produzione e cristallizzazione della soda caustica.

IL «ROSARIO VIVO»

Nel febbraio 1940 presso la parrocchia di S. Stanislao Kostka a Debniki ebbero luogo gli esercizi spirituali. Il peggio non era ancora arrivato ed i Padri Salesiani, proprietari della parrocchia, non erano stati ancora arrestati e spediti nei campi nazisti (ciò avverrà invece un anno dopo: ne periranno dodici preti e un frate, e tra loro il priore Jan Swierc). Ma adesso Karol Wojtyla incontra un gruppo di giovani studenti, tutti assetati di vita spirituale. Essi formano in breve «il Rosario vivo» ed il circolo di catechesi; incontrandosi ogni sabato per le preghiere ed i discorsi nella cappella. Il livello dei discorsi è elevato, anche per il contributo delle lezioni del reverendo Jan Mazerski, biblista e studioso di lingue orientali. Ma la più grande impressione sul giovane Wojtyla la fece uno strano sarto che frequentava la cappella. Si chiamava Jan Tyranowski e si distingueva palesemente dagli altri non tanto per i suoi quarant'anni portati male, e nemmeno per la sua faccia pallida e i capelli grigi, quanto per la scarsa cultura che non gli conferiva facilità di parola, per quel suo comportamento di uomo austero e solitario e per i suoi principi morali eccessivamente rigidi che lo facevano apparire un bigotto. Per tutte queste ragioni, di primo acchito, egli suscitava sentimenti di ripulsa nei giovani. Perché allora veniva nella cappella a parlare ai giovani intellettuali? E non era forse vero che, malgrado tutto, alla fine egli riusciva ad attirarli a sé? Nel bellissimo e profondo articolo dedicato alla memoria di Jan (Giovanni), scritto nel 1949, il futuro Papa chiamò Tyranowski «un apostolo della Grandezza Divina e della Divina Bellezza». Lo strano sarto si accattivava la simpatia di tutti con la sua religiosità, perché in lui si sentiva l'asceta, il mistico, e, soprattutto, l'uomo dalla ferrea coerenza verso la verità.

L'APOSTOLATO DI TYRANOWSKI

Egli era un accanito lettore di San Giovanni della Croce, di Santa Teresa del Bambin Gesù e della «Mistica» del reverendo Pietro Semenenko, famoso fondatore della Congregazione dei Redentoristi e amico dei nostri poeti del romanticismo, e sembrava sospinto da un unico desiderio: servire Dio. Jan, prima ragioniere e poi sarto come il padre, presso il quale lavorava, amava trascorrere qualche ora del giorno immerso nelle meditazioni. Ma non si chiudeva in se stesso: la sua intensa vita spirituale aveva bisogno di qualche sbocco per uscire dai cerchi dell'intenso misticismo e per poter svolgere «l'apostolato della Grandezza Divina e della Divina Bellezza». Prima della guerra lavorava nell'Azione Cattolica, ma ora, nei giorni tetri dell'occupazione nazista, quasi in dispregio del suo perdurare e della sua feroce repressione Jan osò creare intorno a sé una specie di scuola il cui numero di allievi arrivava talvolta a cento. Gli incontri avvenivano nella casa del «Signor Presidente», come scherzosamente lo chiamavano, in via Rózana 7 (via delle Rose), dove abitava con i genitori; oppure, per mancanza di spazio e per maggior sicurezza, si tenevano qua e là sulla riva della Vistola, al fine di eludere la sorveglianza della Gestapo che diffidava dei gruppi dei giovani, sospettando, giustamente, qualche cospirazione. «È difficile scordare quei colloqui con Giovanni - scrisse il reverendo Wojtyla. - Uno di essi mi è rimasto scolpito nella memoria. Giovanni, quell'uomo semplice che spesso si lamentava, davanti al confessore di non avere il dono della parola, quella volta ci parlò, fino a notte fonda, di Dio chi è Lui, ovvero che cosa è la vita con Lui. Le parole difficili gli venivano spontaneamente. Credo che fosse il mese di luglio e la giornata si spegneva lentamente; le parole di Giovanni suonavano sempre più solitarie nel buio che calava e penetravano sempre più nel profondo del nostro animo, sommuovendo quei sentimenti religiosi, stratificati nel fondo, che di solito evitiamo con tremore». L'ultima frase ci fa capire quali spazi, quali confini raggiungessero i discorsi di Giovanni e quale fosse il metodo didattico del suo apostolato. Non ci sbaglieremo di molto sostenendo che proprio là ebbe inizio il pensiero teologico e filosofico del futuro Pastore delle anime; là, dove si sono aperti spazi, penetrati più dall'intuizione cristiana che dal pensiero ragionato. Il sarto-apostolo diceva che quelle profondità si trovano in modo del tutto naturale nell'uomo, ma spesso si disperdono in lui, oppure suscitano un moto di difesa contro la loro potenza. Nell'articolo di Wojtyla leggiamo ancora: «Lui voleva che le nostre anime riscoprissero le verità religiose, ma non attraverso il filtro delle interdizioni e delle restrizioni; voleva che attingessimo alle fonti soprannaturali che, ne era convinto, sono connaturate in noi, per trarne un modello di esistenza umana vissuta nella dimensione spirituale soprannaturale che, tramite la grazia, ci fa essere partecipi della vita di Dio». L'apostolato di Giovanni Tyranowski si fondava sulla fede nella bontà divina, ed anche nella bontà, spesso nascosta, o forse spenta, dell'uomo.

LA MORTE DEL PADRE

L'amicizia con quest'uomo straordinario e con la gente che lo circondava (qualcuno di loro ha poi indossato la tonaca) tuttavia non bastava al giovane per nutrire il proprio spirito: di nuovo le predilezioni teatrali di Karol si erano risvegliate con l'arrivo a Cracovia di Kotlarczyk, nel 1941. Kotlarczyk era riuscito a fuggire con la moglie da Wadowice che era stata incorporata nel III Reich; molti polacchi erano stati deportati dai nazisti, molti altri erano riusciti a passare la «frontiera verde», e con essi Kotlarczyk che, una volta messo piede a Cracovia, si diede ad organizzare clandestinamente il Teatro tanto sognato. Nel frattempo questo regista teatrale, dottore in filosofia, autore della dissertazione «Sulla critica teatrale in Polonia, in Germania ed in Francia», trova lavoro come conduttore di tram e trova casa presso l'amico Wojtyla, in via Tyniecka, e di lì a poco nasceranno lì anche i suoi figli. Purtroppo proprio nell'anno 1941 un nuovo lutto entra in quella casa: il padre sessantenne di Wojtyla viene stroncato da un attacco cardiaco e quando Karol torna a casa dal lavoro, portando il pranzo, preparato come sempre dalla madre di Kydrynski, trova il vecchio genitore esanime. Era il 18 febbraio. Il figlio vegliò tutta la notte presso la salma, pregando in ginocchio. La morte si affrettava stranamente a portargli via tutti i suoi cari! È vero che «per ogni cosa, sotto questo cielo, giunge il suo momento: c'è un tempo per nascere ed un tempo per morire, un tempo per seminare ed un tempo per sradicare» (Eccl. 3, 1-2), ma in quell'anno di guerra e di morte la triste saggezza di Qoelet (10) non poteva dar sollievo. In quel periodo allora la presenza di Kotlarczyk, le sue idee, la sua lunga esperienza (egli era molto più anziano di Wojtyla) gli erano di grande aiuto nella solitudine e nella desolazione. (10) Qoelet (o Ecclesiaste) è il nome dell'autore di uno dei libri sapienziali dell'Antico Testamento. Significa "colui che parla nell'assemblea".

NEL CERCHIO RAPSODICO

Il Teatro Rapsodico, la cui concezione nasce dall'incantesimo delle ottave rapsodiche del grande poeta Slowacki, aveva incominciato a svolgere la sua attività in clandestinità. Non poteva essere diversamente se si considera che il suo repertorio era denso di contenuti patriottici e che i giovani attori avevano scelto il teatro come forma di lotta contro l'invasore: la lotta per salvare la cultura di un popolo sconfitto. «L'indimenticabile Karol Wojtyla» - come dirà di lui il fondatore del gruppo - entrò a farne parte fin dagli inizi. Gli attori del Teatro Rapsodico si limitavano esclusivamente all'arte della parola: alla declamazione ed alla interpretazione della parola, trascurando consapevolmente i gesti e gli oggetti di scena. Durante la guerra (da allora fino al 1945) la compagnia fece circa cento prove e presentò ventidue spettacoli in case private. La prima riunione del gruppo si svolse nell'agosto del 1941, e già il primo di novembre si ebbe la prima di «Re Spirito». Grande, imperscrutabile Slowacki: mentre gli attori ne recitavano i versi, accompagnati dal ritmo degli accordi armoniosi di Chopin, ancora una volta sbalordiva e commuoveva il pubblico raccolto in quella sera in una casa ospitale. I vestiti neri degli attori e le candele accese sul pianoforte creavano l'atmosfera impressionante del giorno dei morti: quasi un'allegoria delle sciagure nazionali. Successivamente furono recitati: «Beniowski» di Slowacki; «Gli inni» di Kasprowicz; «Un'ora di Wyspianski» le poesie di Norwid (11), e il famoso poema nazionale in versi «Signor Taddeo» di Mickiewicz. In quest'ultimo spettacolo Karol faceva la parte del prete, padre Robak, e Tadeusz Kwiatkowski, assiduo spettatore del teatro clandestino, ricorda le circostanze in cui dovette recitare Wojtyla: durante una di queste rappresentazioni «di colpo, nel silenzio che regnava nella sala, risuonò l'altoparlante della radio tedesca, installato davanti alla casa: «... il comando generale avvisa che...» e le parole riportavano le notizie delle vittorie dell'armata tedesca sul fronte europeo. L'attore non interruppe la sua recitazione, non alzò la voce: continuò con calma e ponderazione, come se la voce dello speaker fosse assente; nessuna risposta alla chiassosa sfida. Mentre l'altoparlante continuava ad abbaiare l'elenco delle vittorie naziste, l'autore del poema, per bocca dell'attore Wojtyla, augurava la pace tra due casate nemiche. «Guardai i presenti - racconta Kwiatkowski - lo stesso pensiero accendeva i nostri sguardi: ci sentivamo tutti figli di un popolo reso unito dalla secolare sventura, e determinato a non cedere alla violenza. Il momento era eccezionale e strano». Ma gli attori del Teatro Rapsodico non hanno vissuto una sola volta momenti come questo. Essi, incuranti del clima di terrore, delle retate e dei mandati di cattura affissi sui muri, non mancavano mai agli appuntamenti teatrali del mercoledì e del sabato. Kotlarczyk ricordava anche le prove che si svolgevano in una cucina buia, soprannominata «la catacomba», proprio in via Tyniecka. Il gruppo, reso forte dall'amicizia e dalla solidarietà che lo univa, con la sola arma dei versi dei grandi poeti polacchi, resistette al suo posto, sino alla fine della guerra. Intorno a loro cresceva il cerchio degli ammiratori che costituiva l'élite culturale non solo di Cracovia; e c'era tra loro il poeta Jerzy Braun (vissuto per molti anni a Roma, dove, nel 1977, morì); e poi ancora Zofia Kossak, Tadeusz Kudlinski, Zdzislaw Mrozewski (attore); Stanislaw Pigon (professore di letteratura); Witold Rowicki (direttore d'orchestra); Kazimierz Wyka (professore di letteratura); Jerzy Turowicz (fondatore e fin'oggi redattore capo del «Settimanale Universale» di Cracovia); Wojciech Zukrowski (scrittore). Anche il leggendario Juliusz Osterwa, entusiasta del talento di Wojtyla e grande attore lui stesso, lasciava il suo ritiro solitario del convento per essere presente alle riunioni. Molti di costoro lavoravano nella organizzazione politica clandestina «L'Unione», legata agli ambienti cattolici ed al Principe Metropolita. Fra di essi anche il giovane Wojtyla prendeva parte attiva alla cospirazione ed aiutava gli Ebrei, procurando loro nascondigli e falsi documenti anagrafici ariani. Di lui, divenuto ormai Papa, parlò con riconoscenza al mondo intero Józef Lichten, rappresentante dell'«Anti-defamation League of B'nai B'rith» (Lichten attualmente vive e lavora a Roma). Del resto, a guerra finita, la pietà del reverendo Wojtyla non cessò la sua opera caritatevole e si rivolse al cimitero israelita di Cracovia privo di ogni cura perché ormai la città era rimasta quasi del tutto spopolata di Ebrei, affinché questo non cadesse nella dimenticanza e nell'abbandono. Ma al giovane Wojtyla non poteva certamente bastare l'angusto cerchio dell'attività politica clandestina, costantemente braccata dai nemici; né gli erano sufficiente ragione di vita l'amore per la letteratura e la poesia, la passione per la recitazione, le glorie della regia. (11) Cyprian Norwid è considerato, per la forza profetica rinnovatrice della sua poesia, il precursore della moderna lirica polacca. È anche autore di drammi in versi. Morto oscuramente e dimenticato da tutti in un ospizio parigino, le sue opere furono riscoperte e pubblicate per esteso solo nel 1912.

L'AVVENIMENTO NELLA CATTEDRALE

Nel 1976 il metropolita di Cracovia, dietro invito di Papa Paolo VI, condusse gli esercizi spirituali in Vaticano. Quando parlò della liturgia della Settimana Santa e delle preghiere che l'accompagnano, tornò con il pensiero agli anni lontani: Non dimenticherò mai quello che sperimentai quando per la prima volta sentii queste parole durante la solenne liturgia svoltasi nella cattedrale reale di Wawel, a Cracovia. Da giovane vi ero andato al Mercoledì Santo, quando per la prima volta cantavano il mattutino. Ricordo gli alunni del seminario seduti sulle panche, i canonici del capitolo nei loro seggi in coro, e presso l'altare maggiore della cattedrale l'Arcivescovo di Cracovia e l'indimenticabile cardinale Adamo Stefano Sapieha. Nel posto centrale un grande tripode, con le candele che venivano successivamente spente a mano a mano che si terminava di cantare i singoli salmi. E alla fine il canto: «Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem». Dopo un istante di silenzio, il salmo: «Miserere» (50) e l'ultima preghiera recitata dall'Arcivescovo: «Respice quaesumus Domine super hanc familiam tuam pro qua Dominus noster jesus Christus non dubitavit manibus tradi nocentium et crucis subire tormentum». Dopo di che, tutti uscivano in gran silenzio. Spesso ancor oggi ripenso a ciò, perché quell'esperienza fu unica, e non è mai più tornata con la stessa intensità di allora, anche nella stessa cattedrale, durante la Liturgia della Parasheve. Essa consisteva in fondo non solo in una scoperta della bellezza e del fascino spirituale della Liturgia della Settimana Santa, ma soprattutto nella scoperta di quella dimensione assoluta che è il Mistero espresso nella liturgia e da essa pronunciato come messaggio sempre attuale. Dopo le parole di san Paolo sull'ubbidienza di Cristo fino alla morte, tutti rimasero in profondo silenzio e io sentii che in quell'istante tacevano non solo gli uomini, ma anche tutta la cattedrale, quella cattedrale in cui è concentrata la storia della mia nazione. Tutta l'umanità, la Chiesa e il mondo, il passato, il presente e il futuro, si uniscono nel silenzio più profondo, e pieno di adorazione, di fronte al fatto che «Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem» (Fil. 2,8). Sicuramente egli si riferiva al periodo precedente alla guerra, in quanto i Polacchi non potevano avere accesso sulla collina dei re (Wawel) quando era sovrastata dalla bandiera con la croce uncinata dei nazisti; forse è un ricordo legato a qualche visita che Wojtyla fece da scolaro di Wadowice, o da studente universitario. Comunque è un ricordo da tener presente se vogliamo risalire alle ragioni che determinarono l'importante decisione da lui presa nel 1942.

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